In tema di licenziamento, la prestazione di attività lavorativa in favore di terzi da parte del dipendente che goda di un periodo di malattia viola gli obblighi di correttezza e buona fede che sono alla base del rapporto di lavoro, in cui assume un peculiare rilievo l’obbligo di fedeltà del lavoratore, violazione che può ritenersi integrata da qualsiasi attività che si appalesi in conflitto con l’interesse del datore di lavoro medesimo. Lo ha ribadito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 10627 del 22 maggio 2015.

IL FATTO
Il caso trae origine da una sentenza con cui la Corte d’Appello di L’Aquila, confermando la decisione del giudice di prime cure, ha respinto la domanda proposta da un lavoratore nei confronti della società ex datrice di lavoro, intesa a conseguire la declaratoria di illegittimità del licenziamento per giusta causa con tutte le conseguenziali statuizioni ripristinatorie e risarcitorie sancite dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.
A fondamento della decisione, la Corte distrettuale ha osservato che il provvedimento espulsivo risultava basato sulla relazione stilata da una Agenzia Investigativa assunta dalla società da cui era emerso che il ricorrente, nel periodo in cui risultava assente per malattia dovuta ad infortunio sul lavoro, era stato sorpreso a svolgere attività lavorativa, in qualità di addetto alle pulizie, in favore di una Università degli Studi per conto di altra società; che, in definitiva, le circostanze addebitate al lavoratore integravano fattispecie di assoluta gravità sotto il profilo disciplinare, arrecando un evidente vulnus ai doveri di lealtà, fedeltà e collaborazione cui la condotta del lavoratore dipendente deve essere informata.

Contro tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il lavoratore, in particolare dolendosi degli approdi ai quali era pervenuta la Corte d’Appello in tema di esegesi dei dati istruttori acquisiti, omettendo di considerare gli esiti dei procedimenti penali per falsa testimonianza instaurati nei confronti di taluni dei testi escussi nel giudizio di primo grado (archiviazione o assoluzione), trascurando le evidenti contraddizioni emerse nelle deposizioni rese dagli investigatori, e reputando inattendibili le deposizioni dei testi di parte, nonostante la coerenza e la spontaneità che le connotava, non inficiata dall’accertamento di alcuna fattispecie di rilievo penale.

LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE
La Corte di Cassazione respinge il ricorso presentato dal lavoratore. Osservano, sul punto, gli Ermellini come correttamente la Corte territoriale abbia accertato (facendo leva, in particolare, sugli accertamenti ispettivi espletati dalla Agenzia investigativa incaricata dalla società e corroborati dalle testimonianze raccolte) che il dipendente, nell’arco temporale di cui è causa, si fosse recato con l’auto della moglie ed un collega della stessa, presso l’Università degli Studi ove operava, quale aggiudicataria dell’appalto di pulizia dei locali, la Cooperativa di lavoro di cui faceva parte la consorte. Il lavoratore, tuttavia, si era limitato a criticare gli approdi ai quali era pervenuta la Corte d’Appello, facendo leva su considerazioni attinenti alla attendibilità dei testimoni e all’esito di connessi giudizi penali, ovvero alla efficacia probante dei rilievi fotografici acquisiti. Operazione, questa, non consentita in Cassazione.

Ne consegue il rigetto del ricorso.

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